Definizione della professoressa Mila De Santis (Università di Siena)
Madrigale rinascimentale
A differenza di quanto si pensava fino a pochi anni or sono, sulla base degli studi di Alfred Einstein, non c’è rapporto di continuità tra la civiltà della frottola, in declino con l’inizio degli anni ’20, e il madrigale, il nuovo genere poetico-musicale in auge per circa un secolo a partire dagli anni ’30 del Cinquecento. Quest’ultimo non sarebbe nato, in altre parole, dall’applicazione delle sofisticate tecniche contrappuntistiche di matrice franco-fiamminga alla semplicità strutturale della frottola, ciò che avrebbe determinato, stando sempre alla lettura di Einstein, la deviazione della musica italiana dalle sue tradizioni di immediata perspicuità del testo poetico e di rispetto della sua struttura formale. Accertamenti recenti hanno infatti evidenziato come poco o per nulla era stato coltivato il repertorio frottolistico laddove, tra il 1520 e il 1540, si attestano le prime redazioni manoscritte di madrigali musicali, ovvero a Firenze (Philippe Verdelot) e a Roma (Costanzo e Sebastiano Festa).
Proprio la tradizione polifonica franco-fiamminga, pealtro, aveva messo a punto, tra le altre, tecniche di descrizione e potenziamento del senso del testo tramite mezzi musicali, arrivando a creare una sorta di vocabolario sonoro: in un suo mottetto, ad esempio, Josquin Desprez aveva intonato la parola “velociter” con un successione rapidissima di note.
Queste possibilità venivano adesso a incrociarsi con nuove sollecitazioni provenienti dal mondo letterario: nelle sue Prose della volgar lingua (1525), Pietro Bembo aveva sottolineato l’importanza imprescindibile dell’effetto sonoro del testo – frutto di una specifica commistione di suoni e accenti, dotato di proprietà quali la gravità e la piacevolezza – sulla sua significazione complessiva. La nuova sensibilità comportò il riconoscimento di Francesco Petrarca quale modello assoluto di lingua e di stile (petrarchismo), nonché la ricerca di combinazioni nuove di suoni e ritmi. Si affermò quindi il madrigale poetico, sorto probabilmente nel grembo della singola stanza di canzone e dunque diverso dall’omonimo metro trecentesco: privo di una struttura predefinita, il madrigale cinquecentesco si plasma in base alla peculiare successione – stabilita di volta in volta dall’autore per numero di versi e schema di rime – di settenari ed endecasillabi.
Libertà compositiva e gusto del suono trovano piena realizzazione nell’intonazione musicale, tesa ora a stabilire un rapporto esclusivo con la parola e dunque astrofica (ciò anche quando i testi posti in musica non siano madrigali poetici, ma appartengano a metri definiti, quali il sonetto, l’ottava, la canzone ecc.). A differenza della frottola, inoltre, il madrigale musicale non privilegia alcuna voce, ma distribuisce equamente il peso espressivo della composizione tra i diversi membri della compagine polifonica.
Da Firenze e Roma (città, quest’ultima, in cui è ipotizzabile un’influenza diretta di Bembo sul nascente orizzonte madrigalistico), verso la fine degli anni Trenta il centro produttivo ed editoriale si sarebbe spostato a Venezia, ove si imposero i madrigali di Jacques Arcadelt. Le oltre mille raccolte di madrigali stampate nella seconda metà del secolo danno la misura del successo del nuovo genere poetico-letterario. Il magistero contrappuntistico di Adrian Willaert e di Cipriano de Rore aveva fornito strumenti sempre più raffinati alla realizzazione musicale del testo poetico, creando un equivalente profano dello stile alto dei mottetti sacri, nonché un perfetto analogo dello stile poetico aulico. A Rore, in particolare, si deve l’introduzione dei “madrigali cromatici” (Venezia, 1544), cosiddetti in quanto vi si fa abbondante uso di crome, ossia di note nere di valore piccolo, anche nei passaggi sillabici, così da rendere complessivamente più rapido e incisivo l’assetto ritmico. Con la parola cromatico si indica anche quel particolare stile compositivo che ricorre con sistematicità a movimenti melodici semitonali, e dunque a note alterate, che “cromatizzano”, cioè coloriscono, le concatenazioni armoniche. Rese in tal modo inusitate e spesso impervie, queste ben si prestavano ad interpretare situazioni enigmatiche, o anche di tormento amoroso, irrequietezza, angoscia: se ne sarebbe avvalso come di una cifra personalissima – da alternare, assecondando con ciò le antinomie del testo poetico, a sprazzi di semplicità e scorrevolezza – il principe Carlo Gesualdo da Venosa, in particolare nel terzo e nel quarto libro dei suoi madrigali.
Un altro filone, i cui inizi si fanno risalire alla fortunata antologia stampata nel 1555 dall’editore e compositore Barré, è costituito dai madrigali cosiddetti “ariosi”, caratterizzati da un andamento spiccatamente declamatorio. La tessitura polifonica, prevalentemente omofonica, lascia sempre apprezzare la configurazione dell’aria, cioè della melodia, affidata alla voce superiore.
Con gli ultimi decenni del secolo, quando nuovi modelli letterari (e in particolare Torquato Tasso e Battista Guarini) si affiancano agli autori della prima fase (Petrarca e i petrarchisti, Ariosto), l’arsenale tecnico dei madrigalisti può ormai attingere a tutte le risorse della scrittura polifonica, alla ricerca di soluzioni sempre più sottili e icastiche L’ascolto presupporrà dunque, oltre alla conoscenza della lingua e della metrica italiana antica, la capacità di cogliere le connessioni tra i parametri musicali di volta in volta chiamati specificamente in causa e le singole immagini evocate dal testo dei poetico. Sono queste ultime che la scrittura musicale madrigalistica intende infatti sottolineare e amplificare con i mezzi di significazione che le sono propri. Le nette opposizioni di senso (piacere/dolore; vita/morte/; chiaro/scuro ecc.) proprie dei testi intonati saranno di volta in volta rappresentati dalle configurazioni melodiche (movimenti ascendenti o discendenti, per gradi congiunti o per salti più o meno ampi e scomodi), la tessitura (combinazioni vocali via via diverse per numero, qualità, ambito di estensione, uso di procedimenti omofonici o imitativi), il ritmo (durate dei singoli suoni e loro reciproco rapporto, alternanze suono/pausa), le combinazioni armoniche (a partire dalla opposizione fondamentale consonanza/dissonanza). Sarà ancora il testo a giustificare possibili comportamenti eccentrici rispetto alla norma contrappuntistica, laddove questo faccia riferimento a stati di alterazione, di irragionevolezza, di perdita della coscienza di sé.
Anche all’aspetto iconico della scrittura musicale si affida un compito descrittivo (ad es.: uso di note bianche in rapporto a situazioni di purezza, candore, chiarore e, per contro, di note nere in riferimento a oscurità, notte ecc.). Pur priva di un esito fonico pertinente, questa prassi si giustifica sociologicamente per la coincidenza delle figure dell’interprete e del fruitore: il canto dei madrigali è pratica cortigiana, laddove il principe è spesso committente e dunque egli stesso artefice dell’incontro di poesia e musica. Più raramente – come nel caso del “concerto delle dame” presso la corte di Ferrara – l’intonazione dei madrigali è oggetto di esecuzione per un pubblico di ascoltatori.
Oltre ai compositori d’oltralpe attivi in Italia (Orlando di Lasso, Philippe de Monte e Giaches de Wert), popolano questa fase della storia del madrigale numerosi italiani, tra i quali si distinguono Giovanni Pierluigi da Palestrina (attivo a Roma), Luzzasco Luzzaschi (Ferrara), Andrea e Giovanni Gabrieli (Venezia), Luca Marenzio (Roma, ma con rapporti consolidati con Ferrara, Mantova e Firenze) e il ricordato Carlo Gesualdo (Napoli e per un breve periodo, dal 1594 al 1597, Ferrara, sposo in seconde nozze di Eleonora d’Este).
Proprio verso la fine del Cinquecento, epoca della massima fioritura della civiltà madrigalistica, si manifestano in modo sempre più deciso alcuni fenomeni, tra loro anche eterogenei, che di quella civiltà indicano la crisi ventura, prospettando scenari nuovi. Si fa strada, innanzi tutto, una nuova sensibilità armonica, per cui la dimensione verticale della musica, l’emissione simultanea di suoni diversi, non è più l’esito della sovrapposizione di autonome linee vocali, ma vuole essere considerata come realtà in sé, dotata di sintassi e regole proprie. Parallelamente si registrano con frequenza, in ambito polifonico, soluzioni che si sottraggono al tradizionale equilibrio contrappuntistico tra le voci optando per procedimenti di tipo omoritmico-accordale o comunque per una bipolarizzazione tra la voce acuta (canto, melodia) e quella inferiore (basso). Sono, queste, esperienze che si richiamano ai già ricordati madrigali ariosi, oppure ai recitativi corali già individuabili nella scrittura di Rore; è sbilanciata verso il registro vocale acuto la scrittura esperita a Ferrara, per il “concerto delle dame”, da Luzzasco Luzzaschi. In ambiente fiorentino la polemica anticontrappuntistica avrebbe condotto ad una umanistica riaffermazione del canto a voce sola, il solo capace di evitare la disintegrazione del tessuto prosodico. Mai del resto era venuta meno presso le corti musicofile italiane la prassi del canto monodico accompagnato.
Altri stimoli nel senso di un diverso incontro tra musica e parola provenivano dal mondo della letteratura e della drammatica in particolare, forte quest’ultima del recente successo del genere della favola pastorale (Aminta di Tasso, Pastor fido di Guarini). Anche i madrigalisti vi avrebbero fatto ricorso, ritagliandosi non solo gli squarci lirici ma anche porzioni dialogiche. L’interpretazione della situazione affettiva tendeva insomma a sostituirsi alla restituzione musicale della singola immagine o del concetto espresso dalla singola parola: a quella, come è comprensibile, meglio si sarebbe prestata la duttilità del canto monodico, manifestazione apparentemente immediata della soggettività, piuttosto che la raffinata e sofisticata complessità della scrittura polifonica. La nascita dell’opera, a cavallo tra il vecchio e il nuovo secolo, e raccolte quali le Nuove musiche di Caccini avrebbero offerto adeguata risposta alle nuove esigenze espressive.
In ambito madrigalistico, tradizione contrappuntistica e nuove tendenze si confrontano esemplarmente nell’opera di Claudio Monteverdi (1567-1643), che vide pubblicati in vita otto libri di madrigali. I primi cinque (1587-1605), che mostrano la spiccata predilezione per le rime di Tasso (libri I-III) e quindi Guarini (IV-V), si iscrivono nella tradizione energicamente espressiva di Wert e Marenzio. Non mancano omaggi al recitativo dei monodisti (Sfogava con le stelle, Libro IV, su testo di Rinuccini) e frequenti licenze di scrittura, giustificate in quanto richieste dal dettato poetico: sono queste le caratteristiche della seconda practica (già avviata da Rore, Marenzio, Wert), contrapposta ad una prima practica, tipica della produzione franco-fiamminga, in cui le regole del costrutto musicale avrebbero avuto ragioni più forti rispetto al senso del testo intonato.
L’uso del basso strumentale, introdotto negli ultimi sei madrigali del Libro quinto, non verrà più abbandonato. A partire dal Libro sesto (1614) Monteverdi esplora le possibilità espressive della monodia accompagnata e dello stile recitativo o rappresentativo (tale non perché usato sulle scene, ma perché adatto alla rappresentazione ideale di situazioni e affetti), amalgamandolo o contrapponendolo ad un sapiente impiego della compagine strumentale (in questo senso va inteso il titolo, Concerto, apposto al Libro settimo). I tre principali stati dell’animo umano (“concitato, molle, temperato”) sono rappresentati infine con altrettanti stili musicali nel Libro ottavo (Madrigali guerrieri et amorosi), e in particolare nel celebre Combattimento di Tancredi e Clorinda, il cui testo è estrapolato dalla Gerusalemme liberata di Tasso. La civiltà del madrigale, caratterizzata dall’esecuzione a tavolino di sofisticate scritture contrappuntistiche, aveva ormai definitivamente ceduto il passo. (MDS)