Da un testo di Francesca Gambino (Icon)
La lirica dei trovatori nasce nel Sud della Francia alla fine dell’XI secolo. Anche se rimangono stretti i suoi legami con la poesia religiosa latina del tempo, è una poesia laica e in volgare, elaborata nelle corti feudali dell’Aquitania e della Provenza. Ad esse si aggiungeranno più tardi le corti della Catalogna e dell’Italia settentrionale.
Il primo trovatore è considerato tradizionalmente Guglielmo, conte di Poitiers e IX duca d’Aquitania. Il movimento finisce alla fine del XIII secolo: Guiraut Riquier scrive la sua ultima poesia nel 1292. In questo arco di tempo si possono individuare tre grandi epoche:
1. la prima, che va dalle origini al 1140 circa, è segnata dai nomi di Guglielmo IX, Jaufre Rudel e Marcabru;
2. la seconda si estende dal 1140 al 1250 circa, e comprende quella che viene considerata l’età “classica” di questa lirica, il culmine della ricerca letteraria e formale (1160-1180 circa). È il periodo di Peire d’Alvernhe, Bernart de Ventadorn [Fig.1], Raimbaut d’Aurenga, Giraut de Bornelh, Arnaut Daniel, Folquet de Marselha, Bertran de Born, Raimbaut de Vaqueiras, Peire Vidal e Raimon de Miraval;
3. la terza, infine, va dal 1250 circa alla fine del XIII secolo, e annovera, tra gli altri, i nomi di Peire Cardenal, gli italiani Sordel e Bertolome Zorzi, il catalano Cerveri de Girona. L’ultimo trovatore viene tradizionalmente considerato Guiraut Riquier.
Tra i nomi di circa 450 trovatori si contano anche alcune poetesse, le trobairitz. Le più famose sono Na Castelloza, la contessa di Dia, Azalaïs de Porcairagues e Clara d’Anduza.
Questa poesia non poté superare la grave crisi che scosse il Sud della Francia nel XIII secolo. La Crociata contro gli Albigesi (1208-1229), con i suoi massacri di eretici e le sue devastazioni, distrusse il delicato sistema feudale delle corti meridionali nel quale era nata (1.2) ed eliminò la sua stessa possibilità di esistenza. Dopo che i territori meridionali vennero annessi al regno francese, molti poeti trovarono rifugio nelle corti spagnole e italiane.
Nel 1323 la costituzione a Tolosa del Consistori del Gai Saber, che si prefiggeva lo scopo di dare nuova vita alla scienza dell’antica lirica provenzale, ne segna invece definitivamente la fine: è l’inaugurazione di una sterile poesia di scuola, che sigilla il destino della cultura, ormai morta, dei trovatori.
La metrica
Ai trovatori si deve l’elaborazione di una tecnica del verso che sarà fatta propria da tutta la poesia occidentale. La poesia latina si basava sull’alternanza di sillabe brevi e di sillabe lunghe. Gli autori latini del Medioevo avevano in seguito sperimentato un sistema diverso, basato sulla posizione dell’accento (ictus) nelle diverse sillabe del verso, e la prima applicazione di tale tecnica ad una lingua volgare si ebbe nel Nord della Francia, con i più antichi testi di quella letteratura. I poeti del Sud perfezionarono questa tradizione, introducendo appunto il rigore della rima, la precisione nel numero delle sillabe dei versi, e una grande varietà nella struttura metrica delle strofe.
Gli elementi costituitivi del verso dei trovatori sono l’ictus e la posizione. L’ictus coincide di solito con un accento della frase che viene reso ritmicamente significativo all’interno del verso. Le posizioni sono date dal numero delle sillabe che formano l’unità metrica di base. Il verso è delimitato dalla pausa finale, sempre segnata dalla rima. I versi possono essere semplici o composti, cioè divisi in due da una cesura. Tra i versi composti il più diffuso è quello di dieci posizioni (decenario), da cui ha origine, insieme al décasyllabe francese (vedi il modulo La chanson de geste e l’epica romanza delle origini, 4.4), l’endecasillabo italiano. Fortunato anche il verso di dodici posizioni, corrispondente all’alessandrino francese, che è formato da due senari (sei sillabe) posti uno di seguito all’altro.
Ma l’elemento più caratterizzante della poesia dei trovatori è la rima, che segna la fine del verso, organizza le strutture strofiche e diventa marchio stilistico di scuole e di singoli autori. Anche se i trovatori non la inventarono, essendo la rima già nota alla poesia mediolatina e a quella araba, tuttavia essi ne resero sistematico e rigoroso l’uso. Le rime si distinguono tra maschili (l’accento cade sull’ultima sillaba della parola) e femminili (l’accento cade sulla penultima). Se una rima è femminile, l’ultima sillaba atona non rientra nel computo delle sillabe del verso.
I versi sono organizzati in periodi strofici che i trovatori chiamano coblas. La cobla, l’unità di base melodica della composizione, consiste in un numero variabile di versi con una successione di rime che si ripete poi invariata o con variazioni regolate nelle strofe successive. Per collegare tra di loro le strofe i poeti possono ricorrere a vari artifici: le coblas, ad esempio, si dicono capfinidas quando una parola dell’ultimo verso di ogni stanza è ripetuta all’interno del primo verso della stanza che segue.
Molte poesie sono concluse da un congedo (tornada), in cui l’autore esprime considerazioni sulla propria opera, oppure dedica il componimento a una dama, un mecenate o un altro poeta.
La musica
Con trobar, “trovare, inventare”, da cuitrobador (= trovatore), si deve intendere il “comporre” sia il testo che la melodia: i trovatori non si limitavano infatti a scrivere i testi ma anche li musicavano. Dagli inizi alla fine del XIII secolo la poesia provenzale è per tutti i generi una lirica cantata con l’accompagnamento di uno strumento musicale, di solito una viella o un’arpa. Termini che spesso ricorrono nei componimenti (chant= canto, chantar = cantare, los motz e·l so = le parole e la melodia) e lo stesso nome di chanson, “canzone”, devono quindi essere presi alla lettera. Il trovatore è sempre poeta e compositore ad un tempo.
La struttura musicale di una canzone poteva avere una certa autonomia rispetto alla forma metrica della canzone stessa: alcune melodie di successo si sono svincolate dalle canzoni per le quali erano state composte e sono state riutilizzate per altri componimenti (contrafacta).
Destinate com’erano al canto, talvolta anche alla danza, in ogni caso enunciate nel corso di una performance con una forte componente di teatralità, le poesie avevano una circolazione esclusivamente orale ed entravano nel repertorio dei giullari, i professionisti della parola. L’osmosi tra trovatori e giullari è un dato certo: l’attestano le biografie trobadoriche (giullari fattisi trovatori, trovatori ingiullariti e i teorici del trobar clus.
Di Guglielmo IX ci è giunta una melodia. Di Jaufre Rudel e di Marcabru ne possediamo alcune, e un numero abbastanza grande di Bernart de Ventadorn, Peire Vidal e Folquet de Marselha. Sappiamo inoltre che alcuni trovatori sono stati stimati dai contemporanei più come compositori che come poeti (Jaufre Rudel, Albertet de Sestaro). Tuttavia è molto difficile restituire queste opere alla loro dimensione vocale e musicale. Anche se quattro canzonieri ci hanno conservato le notazioni musicali di circa 260 poesie, i copisti che le trascrivevano erano ormai lontani dalla loro epoca di composizione e la musica profana aveva subito nel frattempo importanti trasformazioni, tra le quali l’introduzione di un nuovo sistema di notazione misurata. Come conseguenza di questa serie di circostanze siamo oggi in grado di leggere l’altezza delle note disposte sul tetragramma, ma non ne conosciamo la durata, e quindi il ritmo, indispensabile per l’interpretazione di qualsiasi pezzo.
Il sistema dei valori cortesi
Etimologicamente cortese indica “ciò che è proprio alla corte”. Per estensione di senso il termine si traduce in antico provenzale con “generoso”, “leale”, “educato”. Questo significato generale, tuttavia, deve essere distinto dall’accezione particolare che la parola ha assunto nella poesia lirica medioevale e nei romanzi bretoni.
La cortesia è un ideale di cultura, un complesso insieme di virtù e di qualità che informano l’etica della vita di corte sia da un punto di vista morale che sociale. Essere cortesi significa sapersi comportare con disinvoltura ed eleganza, essere abili nella caccia e coraggiosi nella guerra, avere la verve per apprezzare la buona conversazione e la poesia.
L’amore cortese verte attorno ad alcuni paradossi già chiaramente formulati nella lirica di Guglielmo IX: la donna deve essere lodata tenendone segreta l’identità (celar), l’amore adultero conduce all’affinamento morale, la rinuncia all’amore è la più grande fonte di gioia.In questo contesto si inserisce la concezione dell’amore propria della lirica trobadorica. L’espressione “amore cortese”, coniata dal filologo romanzo Gaston Paris nel 1883, felicemente designa i due punti focali del sistema che ha trovato la propria espressione letteraria nel XII secolo: la corte (la società) e l’amore (l’individuo). L’amore rende cortesi e la cortesia rende capaci di amare.
Le tensioni che caratterizzano l’amore cortese si spiegano con il fatto che la dama cantata dal trovatore è sposata e di alto rango: è per questo che ne è nascosta l’identità e il piacere amoroso, pure desiderato, non può essere realizzato. Il piacere, d’altro canto, non è possibile per principio. Se infatti il desiderio venisse appagato, si annullerebbe la tensione erotica esistente tra l’amante e la domna (= donna amata, signora del cuore del poeta), e di conseguenza si arresterebbe il processo cortese di affinamento spirituale che di questa tensione si sostanzia. L’amore fondato sul desiderio è fin’amor e si oppone alfals’amor, il piacere sessuale. Il marito (gilos) è quindi anticortese, in quanto possiede la domna. I lauzengiers, i “maldicenti”, sono invece i rivali che con le loro menzogne potrebbero recare danno al poeta. Chi non è cortese è vilain, parola che designa il contadino ma che assume presto anche una connotazione morale.
La fin’amor
La fin’amor si basa su tre nozioni fondamentali: la mezura, che è la dignità, l’equilibrio dei sentimenti, il controllo di sé, la ragionevolezza (sen); il joy, che è lo stato d’estasi, l’abbandono trasognato dell’amante (cosir), che si alterna al dolor e alle pene: nell’amore l’innamorato si annulla e si perde; la jovens, letteralmente “giovinezza”, che racchiude un insieme di virtù morali quali la fedeltà e il merito: l’amore è puro quando jovensguida l’amante.
L’amore cortese, infine, è servizio d’amore (servir). Il poeta serve una donna (domna, dal latino domina = signora) socialmente superiore a lui e costei riconosce il corteggiamento quando ne accetta il servizio (retener, aculhir). La donna deve mantenere il giusto equilibrio tra la compassione (merce) e l’orgoglio (orguelh), concedere uno sguardo o un bacio, senza tuttavia spezzare la tensione del desiderio. Il rapporto tra i due è reciproco: l’umiltà e l’obbedienza dell’innamorato hanno come contropartita la giusta ricompensa, appunto la mercede, della donna. Anche un atteggiamento del tutto indisponente spezzerebbe il fragile equilibrio dell’amore cortese e il poeta sarebbe allora libero di accomiatarsi (comjat, chanson de change) per rivolgere le proprie attenzioni a qualcun’altra.
La donna dei trovatori è inaccessibile ma non significa che si carichi di tratti angelici o sublimati. Essere superiore, midons (= la donna amata) conserva pur sempre la sua fisicità e nel corpustrobadorico non mancano pagine di accesa sensualità.
È a questo punto difficile eludere la questione della “sincerità” o meno della poesia dei trovatori. Prima di affrontare il problema del rapporto tra realtà biografica e poesia bisogna però fare una considerazione: la lirica d’amore può essere vista come un modo per esprimere l’esperienza di tutti gli individui. Il Medioevo, inoltre, non esalta la soggettività: il poeta fa riferimento alla propria esperienza solo in quanto generalizzabile e significativa per il pubblico, che vi si può riconoscere. Gli elementi biografici vengono quindi inevitabilmente svalutati. Tutto quello che i trovatori raccontano non va dunque preso alla lettera, ma neppure deve essere ritenuto del tutto falso. Ciò che conta è che la poesia cortese ha proposto un modello di comportamento e un sistema di valori che sono stati fatti propri dal tardo mondo feudale, in parte sopravvivendo fino all’età moderna.
Trobar clus e trobar leu
Una delle più importanti polemiche letterarie del XII secolo fu quella riguardante il trobar clus e il trobar leu, cioè lo stile “chiuso”, difficile, e quello “leggero”, facile. Tra gli antesignani di queste due maniere di poetare c’è Marcabru (3.3): non solo la sua è una poesia difficile ma è il poeta stesso che ne teorizza l’oscurità attaccando i “falsi” trovatori. La paraul’escura (= parola oscura) di Marcabru non è tuttavia oscurità fine a se stessa o artificio formale gratuito, essa associa in modo coerente impegno morale e densità semantica. Il suo è un trobar naturau(= poetare naturale), perché conforme a un ordine morale e naturale stabilito da Dio.
Propugnatore del trobar leu è invece Giraut de Bornelh, trovatore limosino impegnato ad illustrare in modo quasi didattico il severo canone morale dell’amore cortese (1160-1200). Secondo Giraut la poesia non porta altro premio che il consenso del pubblico. I testi devono quindi essere comprensibili a tutti: lo stile facile, del resto, richiede un impegno non minore di quello difficile. Anche il trobar leu, tuttavia, non è una poesia d’evasione ma è quasi sempre associato a contenuti morali che, proprio attraverso la semplicità del dettato, possono essere divulgati a quante più persone possibili. Trobar clus e trobar leu, quindi, non paiono termini antitetici tra di loro, ma vanno considerati come due correnti di uno stesso indirizzo che può sostanzialmente essere ricondotto a Marcabru, il che spiega anche come uno stesso trovatore, primo fra tutti Giraut de Bornelh, potesse passare con disinvoltura da uno stile all’altro. Anche Peire del resto ritiene giustificati ambedue gli stili, quello oscuro e quello leggero, a seconda dell’argomento e del pubblico a cui si indirizza.Una delle personalità chiave del dibattito tra i due stili è Peire d’Alvernhe: è lui che introduce nel lessico letterario contemporaneo i termini clus e non-clus. Giullare di origini modeste, Peire visitò le corti di Provenza e di Spagna, acquistando grande fama. Pur rifiutando le espressioni violente di Marcabru, ne riprese lo stile austero in una poesia complessa ed elaborata. I contenuti continuano a essere di carattere morale ed è forte la loro connotazione religiosa e cristiana.
Da distinguere dal trobar clus è invece il trobar ric o prim, il “poetare ricco” o “sottile”, intendendo con questo uno stile formalmente molto elaborato ma estraneo alla densità semantica e privo di una problematica di tipo morale. Anzi non è da escludere che la nuova maniera del trobar leu sia stata enunciata dai trovatori morali anche per prendere le distanze dal preziosismo di un trovatore come Raimbaut d’Aurenga, che in una tenzone con Giraut de Bornelh del 1170 si presentava come un continuatore dello stile difficile, ma in realtà lo svuotava delle originarie implicazioni etiche.
Le trobairitz
Le trobairitz costituiscono un fenomeno particolare nel panorama delle letterature romanze: la domna (= donna amata) della società cortese, alla quale è di solito inviato il messaggio poetico, prende lei stessa la penna in mano per misurarsi nel campo della lirica cortese.
Ci sono pervenute le poesie di diciassette trobairitz. Per cinque di esse (la Comtessa de Dia, Azalais de Porcairagues, Castelloza, Tibors, Lombarda) ci è giunta la biografia provenzale, la vida. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, è difficile la loro identificazione, perché le testimonianze documentarie su personaggi femminili sono nel Medioevo molto scarse.
Di queste diciassette trobairitz ci sono pervenute poco più di venti poesie: quattro coblas, un sirventese, un salut, una tenzone, sei partimen dibattuti con trovatori (non contano, naturalmente, le tenzoni di trovatori con un interlocutore femminile immaginario), e solo nove canzoni. La loro produzione poetica è quindi limitata e tramandata da pochi manoscritti, probabilmente anche per le scarse ambizioni di queste poetesse dilettanti. Molti componimenti appartengono del resto a generi “dialogici”: le dame della società aristocratica, alle quali era di solito affidato il ruolo di giudici nelle questioni poste da tenzoni, partimens, o coblas composte dai trovatori, potevano quindi occasionalmente assumere un ruolo più attivo e comporre loro stesse i testi.
Pare che nessuna di loro fosse una poetessa di professione; esse erano per lo più domnas, signore sposate, spesso dame dell’aristocrazia. Un’eccezione è forse costituita da Gaudairenca: di lei non ci è giunto nulla, ma una razo ci dice che il marito, il trovatore Raimon de Miraval, era infastidito dal fatto che componesse canzoni a danza: “Egli le diceva che non voleva avere una moglie che sapesse scrivere poesie, e che in casa bastava un trovatore” (Boutière e Schutz, Biographies des troubadours).
I componimenti delle trobairitz osservano tutte le convenzioni linguistiche e ideologiche della fin’amor: una poetessa si rivolge all’amato, l’amic, con le stesse formule e gli stessi motivi con cui il trovatore canta la domna. Ciò che contraddistingue queste composizioni da quelle dei trovatori è forse il loro realismo e soprattutto l’accesa sensualità. Dopo aver preso l’iniziativa nella scelta dell’amato, la donna pone l’accento in modo più deciso sulla soddisfazione fisica dell’amore. La Comtessa de Dia, ad esempio, si nega a lungo come si addice a una domna, ma poi dichiara: “Ben volria mon cavallier | tener un ser e mos bratz nut” “Ben vorrei questo mio cavaliere | stringere una notte nudo fra le mia braccia”; e, dopo essersi offerta come guanciale, conclude: “Sapchatz, gran talan n’auria | qe·us tengues en luoc del marit” “Sappiate, avrei grande desiderio di abbracciarvi al posto del marito”.
I canzonieri
In realtà cause di vario genere hanno provocato la dispersione e la perdita dei manoscritti del XII secolo:I componimenti dei trovatori ci sono giunti quasi tutti in antologie manoscritte chiamate “canzonieri”[Fig.1]. Il fatto che queste raccolte siano piuttosto tarde (dalla metà del XIII secolo in poi) e che solo un quinto sia di origine autoctona (di 95 canzonieri 52 sono italiani, 10 catalani, 14 francesi, solo 19 occitanici) sembra dar ragione a chi ha sostenuto che la lirica trobadorica avesse all’inizio una diffusione di tipo orale: la tradizione sarebbe diventata scritta solo in un secondo momento e in Paesi come l’Italia, la Catalogna, la Francia, dove la comprensione dei testi provenzali sarebbe stata altrimenti troppo difficile.
1. la costituzione di grandi antologie ha probabilmente comportato la distruzione dei manoscritti più antichi, ritenuti ormai superati;
2. le poesie erano composte in funzione della recitazione, non della lettura, e quindi le copie dovevano essere alquanto rare;
D’altro canto alcune considerazioni possono servire a provare l’esistenza anche di codici antichi:
1. solo una tradizione manoscritta ininterrotta può avere trasmesso testi così complessi e raffinati;
2. i trovatori in alcuni versi fanno esplicito riferimento all’atto della scrittura o della dettatura, mentre i giullari aiutavano la loro memoria anche con pergamene o raccolte personali di componimenti;
3. in un manoscritto si trovano 16 canzoni di Peire Vidal disposte in ordine cronologico: la raccolta non può che risalire al poeta attraverso una tradizione manoscritta ininterrotta.
Del resto l’età tarda dei canzonieri ha un parallelo nella letteratura francese, per la quale ci sono rimasti pochi manoscritti di argomento profano risalenti all’XI, XII e XIII secolo. Si è così analogamente pensato che le chansons de geste (= canzoni di gesta) non fossero così antiche, oppure che la loro diffusione fosse all’inizio solo orale. Tuttavia mancano i primi manoscritti di testi sin dall’inizio affidati alla pergamena: non esistono codici del XII secolo con opere di Wace, Benoît de St-Maure, Marie de France oppure con altre opere di sicuro destinate alla lettura più che alla recitazione.
Alcuni componimenti trasmessi da più canzonieri presentano delle varianti contraddittorie, che non si riescono a spiegare secondo i consueti meccanismi della tradizione scritta. Anche in questo caso molto raramente si tratta di interferenza della diffusione orale. Si dovrà piuttosto pensare a varianti redazionali d’autore oppure a rifacimenti posteriori. I giullari potevano infatti gareggiare con i trovatori, rifacendone qua e là i componimenti a seconda del mutare del gusto del pubblico.
È comunque in un periodo tardo e in paesi non di lingua d’ocche questa poesia viene trasferita da piccole raccolte scritte in grandi antologie destinate alla lettura e corredate dalla notazione musicale, da un corredo di miniature, e da una serie di biografie degli autori e commenti ai testi.
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