Fonte: http://www.italicon.it
La Poetica di Aristotele ebbe molta fortuna nel Cinquecento e sembrò suggerire ciò che non era nelle intenzioni del filosofo: ossia che la tragedia dovesse svolgersi nel giro di 24 ore, in un solo luogo, mediante un’unica vicenda. Tali constatazioni, espresse in relazione a una tragedia perfetta come l’Edipo re di Sofocle, divennero legge e le cosiddette unità aristoteliche diedero forma alle tragedie di Giangiorgio Trissino e Giovanni Rucellai. Rispettando tali unità di tempo, di luogo e d’azione, furono scritte le tragedie italiane del Sei-Settecento (Alfieri compreso), ma non il melodramma che, malgrado le origini classiche, già nel 1641 dichiarava decaduto il modello aristotelico per bocca di Gianfrancesco Busenello nella premessa al suo libretto della Didone musicata da Cavalli: “Quest’opera sente delle opinioni moderne. Non è fatta al prescritto delle antiche regole, ma all’usanza spagnola rappresenta gli anni e non le ore. Nel primo atto arde Troia, ed Enea così comandato dalla madre Venere scampa quegli incendi e quelle mine. Nel secondo egli naviga il Mediterraneo, e arriva ai lidi cartaginesi. Nel terzo ammonito da Giove abbandona Didone“.
In sostanza, libertà dai lacci strutturali della tragedia recitata e piena accettazione della disinvolta struttura spagnola (Lope de Vega in particolare), in sintonia con un genere che era moderno, vivo, spregiudicato, impaziente di liberarsi dei modelli precostituiti. L’azione è spesso doppia fino a tutto il Settecento. Nell’opera eroicomica del Seicento a fianco della vicenda principale è posta sempre qualche altra vicenda, anche buffa, intrecciata perfettamente; il Demofoonte di Metastasio e il Démophoon di Cherubini si dipanano attraverso due vicende parallele di Dircea-Timante e Creusa-Cherinto; nell’Idomemeo, re di Creta di Mozart la vicenda di Elettra s’aggiunge a quella di Idamante e Ilia col solo vantaggio musicale; nella Clemenza di Tito, sempre di Mozart, il rapporto a tre fra Tito, Vitellia e Sesto sovrasta e non cancella quello a due fra Annio e Servilia. Col Romanticismo, l’azione sarà invece una, concentrata sopra un certo personaggio o una certa coppia.
Quanto al luogo dell’opera, esso naturalmente varia, ma più per desiderio di mutazioni sceniche e per il gusto di una certa spettacolarità che per eterogeneità di vicende, come dimostrano le alternanze di scene in interni e esterni svolte in luoghi non troppo lontani. Accanto al raro caso degli epici Lombardi alla prima crociata (Solera e Verdi), ambientata a Milano, a Antiochia e presso Gerusalemme, fa riscontro la Sonnambula di Romani e Bellini, svolta interamente in un villaggio svizzero. Nemmeno l’unità di tempo viene accettata, sebbene non sia proprio respinta del tutto. Les Huguenots (Scribe e Meyerbeer) si dipana per circa un mese; peraltro è abbastanza raro il caso dei Masnadieri (Maffei e Verdi) che porta il tempo dell’azione a un triennio; nel Rigoletto (Piave e Verdi) il protagonista attende la vendetta per “trenta dì“. Col Verismo non è incredibile trovare storie in cui il tempo venga ristretto a un limite aristotelico: la Bohème di Leoncavallo non è molto unitaria, ma il tempo è ben specificato; il primo atto s’immagina la sera del 24 dicembre 1837, il secondo il 15 aprile del ’38, il terzo il 3 ottobre del ’38, il quarto il 24 dicembre dello stesso ’38, quindi un anno esatto. La Tosca (Illica-Giacosa e Puccini) è però raccolta tra l’Angelus di un giorno di giugno del 1800 e l’alba seguente; “all’alba vincerò”, canta il Calaf della Turandot (Adami-Simoni e Puccini); per non parlare poi degli atti del Trittico pucciniano: brandelli di qualche ora, anzi l’ora della loro durata singola. Esemplare l’Isabeau (Illica e Mascagni) in cui i tre atti sono intitolati: il mattino, il mezzogiorno e la sera. In sintesi, tra Seicento e Ottocento, il melodramma gioca liberamente col tempo: nel Ballo in maschera (Somma e Verdi) i tre atti sono racchiusi da una mattina alla sera del giorno dopo; nel Simon Boccanegra (Verdi) tra prologo e opera intercorrono 25 anni di una generazione.