La trascrizione della caccia “Oselletto salvazo” di Jacopo da Bologna
E qui i versi della caccia:
Oselletto selvagio per stagione
dolci versetti canta con bel modo:
tal e tal grida forte, ch’i’ non lodo.
Per gridar forte non si canta bene.
ma con soav’e dolce melodia
si fa bel canto e ciò vuol maestria.
Pochi l’hanno e tutti si fan maestri.
fan ballate madrial’e motetti
tutt’en Fioran, Filippotti e Marchetti.
Sì è piena la terra di magistroli.
che loco pi· non trovano discepoli.
Testo di Carlo Fiore (in comune per i tre brani dell’Ars nova italiana):
Del Duecento musicale italiano non sono rimaste fonti in grado di testimoniare l’esistenza di una pratica polifonica originale: le prime tracce, piuttosto tardive e relative all’adozione dei principi della musica mensuralis francese, sono state trovate a Padova e risultano databili all’inizio del Trecento. Alla stessa zona apparteneva anche il teorico più influente dell’epoca, Marchetto da Padova, vissuto tra la sua città d’origine (nella cui cattedrale pare sia stato maestro del coro), Cesena e Verona. Il suo primo trattato, scritto prima del 1320, si intitola Lucidarium e tratta principalmente degli argomenti consueti concernenti il canto liturgico o, come viene definito nel testo, la musica plana; l’elemento di novità (fonte di un’accesa polemica da parte dei teorici più moderni) era una singolare teoria che prevede di dividere il tono in cinque parti uguali. Entro il 1326 fu approntato il secondo, più impegnativo, trattato: il Pomerium. In esso è contenuta l’elaborazione italiana delle teorie francesi sul mensuralismo: un’interpretazione conservativa e innovativa al tempo stesso, che giustifica il nome che comunemente si dà al pensiero teorico di Marchetto e degli altri autoridella stessa provenienza geografica: scuola “franco-italiana”. Il trattato è strutturato nel modo seguente: il primo libro consta di una parte iniziale in cui si discutono le particolarità e le eccezioni della musica misurata e di una seconda parte, dove invece ne vengono trattati gli elementi fondamentali; il secondo libro si occupa della giustificazione del tempo imperfetto, o binario; il terzo libro, più breve degli altri, è riservato alle regole per la composizione delle polifonie (le consonanze, la teoria modale, gli intervalli). In sostanza, il sistema teorico di Marchetto parte dai presupposti dell’ars antiqua elaborati da Francone da Colonia e, senza demolirli, arriva a giustificare l’esistenza del ritmo binario; in questo senso il valore ritmico di riferimento, cioè la brevis, ammette nel tempo ternario (perfectum) una divisione da due a dodici semibreves, nel tempo binario (imperfectum) una divisione da due a otto semibreves. L’ultimo trattato di Marchetto, la Brevis compilatio, deve la sua stesura all’aspetto imponente del Pomerium che, evidentemente, fece sentire la necessità di una versione più breve allo scopo di offrire una lettura più agevole.
L’Ars nova, filtrata attraverso la mediazione teorica di Marchetto da Padova, si è innestata in Italia sfruttando le condizioni favorevoli che il fermento letterario intorno all’uso del volgare aveva creato nelle regioni centro-settentrionali. Nel Medioevo non era plausibile che ambienti in cui proliferava una qualsiasi forma d’arte fossero allo stesso tempo refrattari alle altre: non sussiste quindi alcun motivo per dubitare che centri come Milano, Bologna o Firenze, dove la poesia era coltivata dai suoi rappresentanti più originali, non fossero anche le medesime piazze in cui le strutture polifoniche dell’Ars nova si fondevano con la giovane lingua italiana. Questo rapporto di simbiosi è confermato dalla prima forma di polifonia misurata che vide la luce in Italia all’inizio del Trecento: il “madrigale”. Termine di etimologia incerta, il madrigale fu inteso con ogni probabilità nell’accezione di “canto nella lingua materna”; la sua struttura strofica prevede due o più terzine (con funzione descrittiva) e una duina (con funzione di riflessione consuntiva). Quanto alla forma dell’intonazione musicale, alle terzine del madrigale viene assegnata una melodia (A), mentre alla duina ne spetta un’altra (B) con funzione di ritornello. La “ballata”, genere poetico, musicale e di danza al tempo stesso, rappresenta un’ulteriore importante porzione del repertorio dell’Ars nova italiana del primo Trecento: l’intonazione della ballata avveniva sia in forma monodica (ma di questa pratica, dal probabile carattere improvvisativo, non sono sopravvissute fonti scritte) sia in polifonia; in questo secondo caso le melodie sono due, A e B: la prima è riservata alla “ripresa” (o ritornello) e alla “volta”, la seconda invece ai “piedi”. L’ultima forma musicale che viene consuetamente associata al Trecento italiano è la “caccia”, composizione che deve il suo nome al frequente ricorso alle tematiche venatorie e che, dal punto di vista formale, consta di due voci che cantavano in canone (cioè intonando la stessa parte ma non contemporaneamente bensì in successione: iniziava la prima voce – chiamata dux – e la seconda – comes – la imitava quando la prima arrivava a un segnale convenuto).
Dei protagonisti dell’Ars nova italiana, attivi prevalentemente dopo la metà del Trecento, ci si limita a citare alcuni nomi come indizi della precisa appartenenza geografica di questa scuola compositiva: Marchetto e Bartolino da Padova, Ottolino da Brescia, Bartolomeo e Jacopo da Bologna, Giovanni da Cascia, Andrea, Bartolo, Donato, Gherardello, Jacopo, Lorenzo e Paolo da Firenze, Corrado da Pistoia, Rosso da Collegrano, Vincenzo da Rimini, Matteo e Nicolò da Perugia, Zachara da Teramo, Antonello da Caserta. La localizzazione di questi compositori va coniugata al loro legame con la committenza aristocratica delle ricche signorie italiane: lo scenario globale che ne risulta mostra per la prima volta come i musicisti avessero acquisito pienamente lo status di professionisti specializzati nella loro arte e come questa collocazione sul mercato della domanda e offerta artistica fosse bene assorbita dall’ambiente dell’aristocrazia cittadina. Seguendo questa direttiva prettamente italiana, si andò contemporaneamente a estinguere la figura del musicista che lavora anche come poeta o cattedratico o diplomatico (i nomi di Philippe de Vitry, Philippe le Chancellier o Guillaume de Machaut sono solo i più noti di questa arcaica tendenza). I manoscritti che conservano il repertorio musicale del Trecento italiano sono spesso capolavori della miniatura oltre che fonti musicali pure e semplici. Tra i più celebri ricordiamo: il Codice di Faenza, i codici Squarcialupi e Panciatichi (Firenze), il Codice Mancini (Lucca), i codici Chigi e Barberini nella Biblioteca Vaticana (Roma). Questo repertorio ha comunque una diffusione piuttosto ampia in tutta la penisola: da Aosta a Bergamo, Cividale del Friuli, Padova, Arezzo, Assisi, Bologna ecc. La ricchezza grafica di queste fonti mostra come il gusto estetico dei committenti (antenati del collezionismo librario) influisse sulla qualità materiale dei libri che, nei secoli, si è dimostrata una delle ragioni principali della loro conservazione dalla furia delle distruzioni belliche e delle innumerevoli e cicliche occasioni rovinose: roghi, pestilenze, disastri naturali, che da sempre mietono vittime sia tra gli esseri umani sia tra le testimonianze del loro passato.